Nel panorama automobilistico moderno, dominato da SUV ibridi e tecnologie all'avanguardia, emerge il ricordo di un'epoca in cui la sperimentazione ingegneristica spingeva i confini del possibile. Subaru, oggi nota per i suoi efficienti crossover e la trazione integrale Symmetrical AWD, ha un passato di audaci innovazioni. Tra queste spicca il suo motore boxer quattro cilindri biturbo sequenziale, un esperimento tecnico che, seppur non privo di difetti, ha lasciato un segno distintivo nella storia motoristica, incarnando uno spirito di creatività meccanica ormai raro.
Verso la fine del secolo scorso, precisamente nel 1993, la casa automobilistica giapponese Subaru introdusse un propulsore che sfidava le convenzioni dell'epoca. Il motore, noto come EJ20 twin-turbo, fece il suo debutto con la seconda generazione della berlina Legacy. A differenza di altre architetture twin-turbo che impiegavano compressori di dimensioni diverse, la peculiarità del sistema Subaru risiedeva nell'utilizzo di due turbocompressori quasi identici, configurati in serie. L'obiettivo era ambizioso: garantire una risposta pronta ai bassi regimi e una potenza sostenuta ad alti giri, combinando i benefici di entrambi i mondi.
Il principio di funzionamento della sovralimentazione sequenziale di Subaru era raffinato: un primo turbocompressore operava autonomamente fino a circa 4.000 giri/min, dopodiché il secondo entrava progressivamente in funzione. Per facilitare questa transizione e mitigare il cosiddetto 'turbo lag', il sistema chiudeva temporaneamente la wastegate del primo turbo, consentendo al secondo di pre-attivarsi in modo più fluido. Alla fine, entrambi i turbocompressori lavoravano in armonia, convalidando il design parallelo. Questa intricata gestione era affidata a una complessa rete di valvole, solenoidi e centraline elettroniche, testimoniando l'ingegno tecnologico di Subaru in quel periodo storico.
Nonostante la brillantezza del concetto, il sistema presentava delle sfide tecniche. Un inconveniente notevole era la momentanea caduta di pressione che si verificava durante il passaggio tra il primo e il secondo turbo, tipicamente tra i 4.000 e i 4.500 giri/min. Questa flessione, quantificata in un calo di 4,4 psi da un'analisi del 2001 della rivista australiana AutoSpeed, divenne popolarmente nota tra gli appassionati come la 'Valle della Morte'.
Nonostante queste complessità, il motore biturbo si è evoluto nel tempo, passando da una potenza iniziale di 246 CV a raggiungere i 276 CV in alcune versioni successive. Tuttavia, la sua complessità meccanica spesso spingeva i preparatori a convertirlo a una configurazione a singolo turbo, considerata più semplice e affidabile. Dopo la Legacy B4, l'ultima vettura Subaru a montare questo propulsore, la casa giapponese non ha più riproposto un'architettura simile su motori a quattro cilindri.
A differenza di Porsche, che con la 911 Turbo 993 adottò un sistema biturbo parallelo, più logico per un motore boxer, Subaru ha preferito altre strade. Anche con il ritorno di Porsche ai motori flat-four turbo con la 718, la scelta è ricaduta su un singolo turbocompressore, dimostrando come l'industria si sia orientata verso soluzioni più semplici e consolidate.
L'esperimento del motore boxer biturbo sequenziale di Subaru ci offre una preziosa lezione: l'innovazione non è sempre un percorso lineare e privo di ostacoli. Se da un lato l'ingegneria moderna ha reso i turbocompressori più efficienti e meno problematici, come dimostrato dall'attuale Subaru WRX, dall'altro si percepisce una certa perdita di quella "follia" creativa che animava i progettisti in passato. La storia del boxer biturbo ci invita a valorizzare l'audacia e la volontà di esplorare nuove soluzioni, anche se imperfette. Questi tentativi, pur non sempre sfociando in successi commerciali duraturi, arricchiscono il patrimonio tecnologico e alimentano la passione per l'ingegneria, spingendoci a sognare motori che, per la loro complessità e originalità, vanno oltre la mera efficienza.